Carta da regalo



Ho perso il lavoro, sono giorni che elemosino un lavoro, elemosino un diritto. La mia famiglia non conosce, non può, non deve conoscere tutto ciò. Esco di casa ogni mattina, come sempre da una vita. Esco di casa con la mia borsa qualche minuto prima dell’alba. Bacio mia moglie dolcemente, le auguro un buon risveglio, sussurro qualche parola, lascio uno sguardo alla mia piccola bambina e poi vado via, socchiudendo la porta. Vorrei zittire il rumore dell’ascensore ma non posso, il palazzo è vecchio e anche l’ascensore nonostante i continui interventi di manutenzione grida i segni del tempo. Fermo alla fermata dell’autobus incontro le persone di sempre, sembra di conoscerle da una vita, sembro possedere come nessun altro alcuni istanti della loro vita. Sguardi e sospiri rubati, una quotidianità che a nessun altro appartiene se non a degli estranei. Neanche loro sanno che ho perso il mio lavoro!
L’autobus arriva con qualche minuto di ritardo, stamane piove, si sa la pioggia rallenta tutto. Resto in piedi, lascio sedere una signora anziana che mi guarda stupita. A quest’ora l’autobus è pieno di operai. Venti minuti passano in fretta, i vetri sono appannati, riconosco il logo, l’insegna dell’azienda per cui lavoravo, prenoto la fermata e scendo. Piove, l’acqua scivola sul mio impermeabile, resto a osservare l’entrata, lo faccio da alcune mattine. Fermo per alcuni minuti, lascio che sia la mia mente a marcare il cartellino, percorrere il lungo corridoio bianco per poi perdersi in quel labirinto di uffici, di scrivanie e di scaffali. Aspetto qualche minuto, ogni mattina il tempo qui di fronte è sempre meno, sempre più veloce. L’acqua ancora mi bagna, in silenzio mi allontano. L’autobus è ripartito, e io resto ancora l’unico custode della mia nuova vita. Nella borsa ho decine di pagine stampate, copie, fogli che raccontano aridamente le mie competenze, i luoghi che ho visitato, le lingue che conosco.
Di nuovo a casa. Siedo a tavola silenzioso, assente, nascondo la mia delusione, la mia tristezza, continuo a ripetere di esser solo stanco. Lascio che siano degli stupidi dialoghi in tv a distoglier l'attenzione dalle mie bugie. Finita la cena aiuto a sparecchiare e fingendomi stanco vado a letto.
È l’alba, stamattina ho preferito restare qualche minuto in più sotto le lenzuola, farò tardi ma che importa, nessuno mi aspetta, anche le mie bugie possono aspettare. Sono veloce nel vestirmi, faccio colazione in piedi, accanto al tavolo. Bacio ancora la mia sposa, sfioro la sua pelle come fosse ancora e ancora una scoperta. Le mie dita si fanno leggere, salpano dagli zigomi per scivolare lungo le guance e affondare nelle piccole fossette di fianco le labbra. Bacio la mia sposa in silenzio per non destare i suoi profondi sogni e sperando di lasciar un segno del mio risveglio, del mio passaggio prima di fuggire. Non ho ancora avuto il coraggio di parlarle, non ho avuto ancora il coraggio di lasciar sciogliere queste bugie nei suoi occhi, di lasciar depositare queste bugie sulle sue labbra.
Il tempo scorre, i gesti e gli orari di una vita sembrano non appartenermi più in questa farsa. I miei occhi si raccontano, ormai non hanno più speranze e non riescono più a nasconder il loro dolore, sembra stia degenerando tutto, anche l’amore.
L'ascensore continua a cigolare, prima o poi qualcuno dovrà far qualcosa, io non posso far finta di aver tempo. Sono di nuovo fermo alla fermata dell'autobus, stesso orario, stessa gente. Sono stanco di fingere. Oggi a mezzogiorno ho un nuovo colloquio, stesse domande, stessi sguardi, sono troppo vecchio per queste cose, troppo vecchio perché qualcuno creda ancora in me ora che i miei occhi hanno perso ogni riflesso di speranza. La mia esperienza non è scritta negli occhi ma solo su fogli di carta, carta semplice, formato A4. Oggi proverò a lavar via questa strana e insensata rassegnazione, forse basterà un po' d'acqua fredda, forse oggi tornerò a casa con un nuovo lavoro, potrò raccontare il mio dolore e sciogliermi di nuovo come neve fra le braccia della mia sposa, forse domani potrò fare una sorpresa alla mia piccola stella, è tanto che non le regalo un nuovo gioco. Solita fermata, solite attese. Sono passate tredici settimane dal mio primo giorno di lavoro fuori da queste mura, fuori dal mio ufficio e sono sempre meno i minuti che mi soffermo all’ingresso, sempre meno i minuti che ricordo il mio vecchio ufficio. E' sempre più veloce il passo che mi conduce lontano da questo luogo un tempo così familiare. Faccio una passeggiata nel parco qui accanto, qui ho nuovi amici, nuovi colleghi. Hanno qualche anno più di me. Seduto su una panchina continuo a scorrere le pagine del giornale, a cerchiare i nuovi, i vecchi, gli ennesimi annunci di lavoro.
Ogni tanto alzo lo sguardo, mi distraggono le grida dei bambini... penso che forse le mie bugie mi stanno allontanando anche dalla mia bambina e che forse potrei spendere meglio il mio tempo. E’ un pensiero fugace, malinconico che cerco di scacciar via. È tempo che vada. Mancano pochi minuti a mezzogiorno, sono in questa sala grande qualche decina di metri quadri, pareti bianche, una vetrata illuminata dal sole di punta, nessun rumore. Ho lavato il viso con acqua fredda come mi ero promesso di fare, guardo il mio riflesso nell'angolo dell'ampia vetrata, intravedo le mie rughe, i segni del tempo. Una voce femminile mi chiama, mi chiede di entrare nello studio del direttore, la stanza è enorme, sulla mia sinistra c'è una libreria in legno e di fronte a me lo sguardo, il volto dell'ennesima delusione o di un nuovo viaggio. Chiudo per qualche istante gli occhi, rivedo il sorriso della mia piccola stella e so che fra qualche ora mi stringerà forte e farà in mille pezzi una coloratissima carta da regalo.

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