Medici
Era una giornata come tante altre. Una di quelle giornate invernali, fredde e austere. A mezz'aria una leggera nebbiolina di bianche trasparenze e velature rendeva i confini fragili e vellutati.
Un debole raggio di sole filtrava attraverso quel cielo rado di nuvole e di un azzurro mare.
Era un giorno di festa. Giada si era alzata tardi, sua madre l'aveva salutata con un bacio sulla fronte, dolce e silenzioso così da non disturbare il sonno e il sogno. Poi era andata via. Lei aveva continuato a riposare e, forse fu in quel preciso istante che in sogno le parve di sorridere senza un perché. Suo padre le aveva preparato la colazione. Aveva scelto con cura ogni cosa, dal cucchiaino, alla tazza, ai biscotti nel piccolo piattino verde. Aveva scaldato un po' il latte. Il suo bianco candore l'aveva perso screziandosi di qualche goccia di cioccolata. La marmellata ai frutti di bosco era di un rosso vermiglio. Il pane integrale era già stato affettato e imburrato. Nell'angolo destro del tavolo aveva lasciato un piccolo post-it, c'era scritto: "Piccola, papà scende in studio, dolce risveglio."
Giada aveva aperto gli occhi. Era rimasta a godere del tepore delle lenzuola, gli occhi rivolti al soffitto bianco… mancavano le stelle pensò. Si ricordò allora di quando bambina suo padre aveva dipinto il soffitto di blu e lo aveva disseminato di quelle stelline fosforescenti. Il buio della sua stanza le era sembrato pian piano sempre meno nero e pericoloso. Fu da allora che smise di aver paura della notte.
Giada godette ancora di qualche istante lì sotto le lenzuola, sentì il suo respiro nella pancia. Aveva una gran fame. Non ebbe voglia né di lavare il viso né di cambiarsi, restò in pigiama, quello di pail, caldo e profumato. Gli umori della notte erano un trucco sottile sul viso, accanto agli occhi e sulla fronte liscia e vellutata.
Andò in cucina, il profumo della confettura e del cioccolato ancora caldo le solleticarono le narici. Sorrise. Lesse il post-it. Sorrise ancora…
Mangiò tutto, bevve a piccoli sorsi. Gustò il sapore profondo del latte e della cioccolata. Ogni piccolo sorso era un ricordo, un ricordo che andava e veniva come un'onda. Scaldò l'acqua e ebbe cura di preparare le erbe per il té. Lo sorseggiò accanto alla finestra. Scostò appena la tenda, poi disegnò sul vetro un varco con le dita. La patina bianca le bagnò i polpastrelli. Guardò fuori il via vai dei passanti: le donne mano nella mano con i propri figli, gli uomini in giacca e cravatta, distratti a parlare al telefono. Guardò due vecchine ferme sulla panchina a chiacchierare. Guardò i bambini rincorrersi, poi i piccioni, quelli che sono sempre e ovunque.
Affacciata a quella piccola finestra sul mondo, d'un tratto Giada sentì il rumore di una macchina, suo padre si allontanò. Lei lo seguì con lo sguardo. Vide il cancello chiudersi, la macchina svoltò a destra e, il parco di fronte casa restò sullo sfondo.
Giada conosceva l'amore del padre per il suo lavoro. Lui diceva che era un dono, una missione, aveva creduto fin dall'inizio in quel testamento. Ippocrate lo doveva aver contagiato per benino pensò. Sorrise. Era fiera di lui. La medicina è nulla senza comprensione e ascolto le ripeteva.
Quando era più piccola, lui la teneva con sé. I pazienti che venivano a visita, quelli che suo padre chiamava uno ad uno con il nome di battesimo la conoscevano fin da quando era uno scricciolo. Occhi grandi e neri, un nasino all'insù e le guance rosse e paffute. L'aveva osservato bene suo padre. Si sedeva sempre accanto ai suoi pazienti, non era mai al di là della scrivania. L'anamnesi sembrava una chiacchierata fra vecchi amici e spesso non mancavano delle carezze sul viso o una stretta di mano sincera. A volte con alcune vecchine, suo padre non era un figlio ma un padre.
Quel ricordo la commosse.
Restò ancora col pigiama. Si stropicciò gli occhi e alcune cispe andarono via. Scese al pian terreno, la porta dello studio di suo padre era solo accostata. Entrò. La stanza era vuota. Il lettino nell'angolo a sinistra. La scrivania di legno al centro, la marea di fogli come un secondo mordente. Sulla destra una piccola vetrinetta semivuota con le ante in vetro. Poche e sparute scatole. Nomi spesso impronunziabili, scritte colorate su fondo bianco. Fiale di vetro ambrato. Accanto alla vetrinetta una libreria in legno. Tanti libri arrangiati come membri di un'orchestra. Sapeva benissimo quanto quell'ordine fosse stato scelto con cura perché ogni libro risuonasse. Avvicinò le dita, sfiorò le coste, poi la superficie delle mensole, un velo di polvere grigia le sporcò le dita.
Sulla scrivania tra i mille fogli vide il fonendoscopio. In fondo agli occhi, come se stesse scostando il sipario di un teatro le sembrò di vedere suo padre indossare quel fonendoscopio e, con la fronte appena corrucciata ascoltare il cuore. Curiosa si avvicinò alla scrivania e indossò il fonendoscopio. Lo indossò con la stessa cura e vanità con cui si indossa l'anello del proprio sposo. Non seppe spiegarsi il perché ma profumava di nocciola e di vaniglia. Poi quasi per gioco posò il diaframma sul suo cuore e prese ad ascoltarsi. Ascoltò i gorgheggi, i respiri, i sussurri, i gemiti, gli echi come di grotte. Scoprì un mondo, scoprì l'universo che suo padre ascoltava da anni. Scoprì l'universo nella sua finitudine e quel filo sottile che legava la sua vita a qualcosa che era al di là del suo semplice esser nel mondo. Sentì risuonare in tutti quei respiri il respiro dell'universo e fu in quel preciso istante che capì davvero, nel profondo, quella frase che suo padre aveva scritto all'ingresso del suo studio sotto un piccolo cestino di vimini:
"Chi ha metta, chi non ha prenda". G. Moscati

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