La vecchia - Giada


Seduta sui gradini di una chiesa di campagna, arroccata sulla roccia innevata, la vecchia si copriva con il suo scialle di lana. La bambina tornò e lei accennò un sorriso. “Raccontami una delle tue storie” disse e, sedutasi accanto non staccò per un solo attimo gli occhi dalla vecchia. Raccontami una storia disse e la vecchia continuò a tacere. La bambina attese silenziosa. 

La vecchia a notte fonda si schiarì la voce e cominciò.
"Era di maggio, la natura mostrava i suoi fiori, lasciava germogliare quei semi assopiti nel letargo invernale. Era di maggio e una bambina correva. Inseguiva il suo aquilone d'un rosso vermiglio. Correva, piangendo, tra i fili d'erba, tra le margherite, correva verso l'enorme quercia che come un solo e unico cavaliere dominava e proteggeva l'intera vallata. L'aquilone era alto, si lasciava sospingere e carezzare dal vento. La bambina, affannata iniziò a rallentare la sua corsa, l'aquilone era ancora alto e dal cielo proteggeva la sua ombra. La bambina si fermò a pochi metri dall'enorme quercia, le lacrime avevano smesso di volar via, ora lente rigavano il viso. Lente venivano giù, lasciando una sottile scia di sale intorno agli occhi, come fosse un trucco. Il suo nome era Giada.

Giada aveva gli occhi grandi e scintillanti. Era nata di marzo, il 31 marzo. Nacque in una notte senza stelle, rischiarata solo da un’enorme luna rossa. Nacque senza gemiti. Il suo viso era invaso dagli occhi. Grandi, di un verde smeraldo. Giada aveva le labbra sottili e i capelli di un nero corvino. Sorrise da subito alla levatrice. Sua madre, ancora stanca del parto, l'accolse tra le braccia e la strinse forte. Giada continuò a non emettere alcun gemito. Bevve il latte bianco di sua madre e poi chiuse gli occhi. Sua madre la tenne stretta a sé tutta la notte, carezzandole il viso e sussurrandole all'orecchio storie dal profumo del mare. Un giorno lontano Giada si svegliò di buon mattino, spalancò gli occhi e sorrise. Sorrise silenziosa senza emettere alcuna parola. Sembrava avesse ingoiato ogni suono, ogni gemito. Trascorsero i giorni, gli anni e Giada continuò a trattenere non si sa dove ogni suono. Le parole si fermavano sul palato, sembravano sciogliersi nella saliva dolciastra e affogavano lì, senza poter pronunciare respiro. Quanti medici incontrò Giada! Ognuno di loro scrutava il suo battito,  ascoltava i suoi respiri alla ricerca di quel vuoto che sembrava avesse inghiottito ogni suono. La risposta era sempre la stessa, sua figlia è sana. Così sua madre preoccupata, a testa bassa, trattenendo le lacrime, tornava a casa. Un giorno, uno di quei giorni qualunque, Giada ascoltò la voce delle onde, il mare era lì, gridava dal fondo della scogliera. Le onde dagli abissi cavalcavano fino a raggiungere la luce. Le onde che si distendevano per poi avvolgersi ancora, le onde che come una mano sembravano accarezzare la sabbia per poi ritornare rinnovate nuovamente al mare. Cercò invano di ricreare quel suono nella sua mente. Si sforzò di gridare come non aveva mai fatto. Anche quella volta le parole si strozzarono in gola.
E ora correva, correva ancora tra i fili d'erba, correva più veloce delle sue lacrime.”
La bambina sorrise alla vecchia e si strinse nel suo cappottino rosso. Un brivido freddo le percorse la schiena. “Continua” disse e i palmi delle mani accolsero nuovamente il suo mento. Lasciò le labbra socchiuse e continuò a respirare lentamente. La vecchia le sorrise e per la prima volta le carezzò con le mani, fredde e screpolate, il viso. Fu una carezza dolce. Durò un solo brevissimo istante ma lasciò una debole e calda scia sulla pelle. La bambina fu percorsa da un nuovo brivido. Perse le parole e attese, questa volta in silenzio, che la vecchia riprendesse a raccontare la sua storia. La vecchia continuò.
“La piccola Giada si guardava allo specchio, muoveva le sue labbra, cercava di cantare. L'aria usciva dalla bocca, carezzava le labbra lasciando uscire solo un debole soffio. Nessun suono. Giada continuava a non aver voce.

Un giorno, un giorno di quella lunga e calda estate nel piccolo paesino di cui Giada conosceva ogni angolo e ogni creatura, arrivò messere Jerome. Era di origine francese. Arrivò lì quasi per caso, vittima di uno strano caso di omonimia. Trasferito al Sud, queste le parole delle ultime righe della lettera a lui indirizzata. Messere Jerome lasciò così la sua città immersa nelle vallate protette da una leggera nebbiolina e partì.

Il paesaggio scivolò sul vetro di una carrozza affollata. Trascorsero ore, scorsero scie di verde, scie di blu. Cambiò il colore del cielo e il profumo dell'aria lì al Sud. Il treno si fermò. Messere Jerome scese con il suo enorme bagaglio e lì incontrò Giada. Giada gli sorrise. Fu un incontro casuale eppur magico nella sua irrealtà. Messere Jerome salutò con un sorriso la piccola Giada, le chiese il nome e con le dita sfiorò le sue guance paffute. Giada si sforzò di pronunciare il suo nome, lo fece socchiudendo gli occhi e spingendo fuori tutta l'aria che aveva in gola. Il silenzio ingoiò quell'aria e nessun suono visse. Messere Jerome lesse il nome Giada sulle labbra, con un dito socchiuse quelle linee rosse e poi, un po' per magia, un po' per gioco tirò fuori una piccola monetina, la fece scivolare tra le dita e la regalò alla piccola Giada. Ti porterà fortuna disse. Sorrise e andò via, salutando la piccola Giada.

Messere Jerome e Giada si incontrarono ancora. Accadde qualche giorno dopo in una piccola aula della scuola elementare. Era il primo giorno di scuola della piccola Giada, e il primo giorno di lavoro di messere Jerome. 
Messere Jerome era il nuovo maestro di musica. Si presentò ai suoi nuovi alunni e alle loro madri. Volle conoscere i loro nomi. Sorrise alla volta di Giada. Chiese a ognuno di avvicinarsi al piano che era lì impolverato. Chiese a ognuno di suonare qualcosa, di inventare, di giocare. I bambini suonarono, giocarono con quel piano, sporcandosi le dita di polvere e lasciando cantare quel piano per troppo tempo relegato al silenzio. Non fu un bel concerto ma messere Jerome si divertì un mondo.

Finalmente fu la volta di Giada. 

Iniziò a suonare timidamente. Posò le mani piccole e sottili sui tasti del pianoforte. Era la prima volta che le sue dita scivolavano su quei tasti. Giada non conosceva le note eppure da quel silenzio denso di attese venne fuori una melodia dolcissima. Giada non conosceva le note, non conosceva gli accordi, per lei suonare quel piano era come colorare. Il bianco e il nero si mescolavano, si inseguivano. Due soli colori erano bastati a Giada perché ricreasse un intera tavolozza. Il colore invadeva come fosse un'onda lo spazio. Il colore 
colorava il silenzio e sembrava vestire come fosse un nuovo abito il corpo di ognuno. Quando ebbe finito di suonare sulla pelle di sua madre e di messere Jerome restò come un velo. Entrambi trattennero il respiro, trattennero le parole e guardarono a lungo la piccola che riprese a suonare. Le sue dita continuarono a carezzare i tasti della notte, i tasti dell'inverno. Il bianco e il nero continuarono a rincorrersi in un susseguirsi di suoni, di echi. Sembrava di vederle le onde. Le onde che si infrangevano sugli occhi di Giada. Messere Jerome non aveva mai sentito nessuno suonare così. I suoni sembravano prender forma, sembravano espandersi nell'aria e acquistare volume. Il suono come un grembo sembrava accogliere dentro di sé ogni cosa, come un velo sembrava posarsi sull'inanimato e vestirlo di magia.
La piccola Giada quel giorno riempì lo spazio di tutte le parole che il suo corpo gli aveva rubato. Sua madre pianse, l'abbracciò forte. Volle ingoiare tutti quei suoni, quelle note per riempire i silenzi di quegli anni. Le sembrò, finalmente, di conoscere sua figlia, la sua voce e i suoi pensieri.”
La vecchia chiuse gli occhi e la sua voce si placò. La bambina attese silenziosa che la voce tornasse a raccontarle della piccola Giada. Le sue labbra restarono appena socchiuse, come fossero un bocciolo di rosa nell'attimo prima della fioritura. Quel silenzio improvviso sembrò durare un'eternità. La storia della piccola Giada restò sospesa nel tempo, tra magia e fantasia, tra sogno e realtà.
La vecchia attese, silenziosa. Sembrava aspettasse un sussurro, un respiro lontano. Non aveva perso la voce ma fu come se qualcuno dovesse ancora raccontarle della piccola Giada e della sua musica.
La luna nel suo bianco pallore rischiarava la notte. Pian piano quella luce bianca si fece più flebile, più tenue e lontana. Un manto nero sembrò avvolgerla e carezzarla dolcemente. La notte divenne più nera e silenziosa.
Fu allora che la vecchia ritrovò le parole e la storia della piccola Giada continuò.
“Giada aveva chiuso gli occhi. Aveva una gran confusione in testa. Quei suoni sembrava si fossero mescolati tutti nella sua mente. Ora vagavano senza un ordine preciso, senza un apparente criterio logico. La musica era finita ma per un attimo sembrò averle dato una voce.

Messere Jerome terminò la sua prima lezione salutando tutti velocemente. Corse via. Si sentì come vuoto. La musica della piccola Giada l'aveva depredato di ogni pensiero. Le immagini scorrevano e si sovrapponevano l'una all'altra senza aver il peso del tempo. Si sentì così molte altre volte ancora. Si sentì così ogni volta che la piccola Giada sospirava sui tasti del piano. La musica si spandeva. Giada continuava a seguire le sue onde. Cercava le onde, cercava quell'eco, quel grido lontano. Giada dipingeva ancora le onde fra le note.”

La vecchia tossì, guardò la bambina avvolta nel suo cappottino e le sorrise. Il buio si attenuò, divenne leggero, impalpabile. L'alba si schiuse lenta. La bambina si stropicciò gli occhi e si stiracchiò. La vecchia tacque e diede riposo alla storia di Giada. La bambina non si lamentò, aveva imparato a conoscere la vecchia e le sue lunghe pause. Restò per qualche minuto in silenzio, immaginando il viso di Giada e quella musica così soave, poi salutò la vecchia e andò via. La notte tornò e così la bambina. La vecchia avvolta ancora nel suo scialle di lana, sedeva sui gradini di marmo bianco. Assorta, sospesa, silenziosa. La bambina tornò a guardarla, si sedette accanto a lei. Fece un respiro profondo e attese. La vecchia si bagnò le labbra e cominciò.
“Trascorsero giorni, settimane, mesi. Trascorsero infine anni, Giada crebbe sana e forte. Il silenzio continuava ad appartenerle. Nessun suono ebbe luogo con la sua voce nemmeno dopo la morte improvvisa di sua madre. Il dolore si sciolse nel suo silenzio, le lacrime rigarono il suo viso diluendo i singhiozzi. Quel giorno, l'ultimo sguardo lo posò sulle mani di sua madre. Era denso di parole, di pensieri. L'ultimo sguardo lo dedicò a quelle mani, sperando potessero almeno in quel giorno tirar fuori dalla sua gola le parole strozzate. Non accadde!
Giada continuò a suonare, studiò e girovagò per il mondo. Dovunque fosse serbava il ricordo delle onde. Ogni suo concerto era uno sfavillare di suoni mai sentiti, capaci di vestir d'incanto lo spazio, trasformarlo, renderlo etereo. La sua musica avvolgeva in una nuvola bianca e soffice ogni cosa, diluiva i pensieri lasciando ciascuno sospeso nel tempo a osservare quelle onde che lei dipingeva con le note. Sembrava di vederle le onde, le onde che cercavano un solo piccolo appiglio nel loro lento e continuo elencare dall'orizzonte lontano fino alla riva. L'infinito sembrava allungarsi con le sue frange e distendersi. L'infinito sembrava stiracchiarsi, scrollandosi di dosso gli umori del tempo.
Giada morì in autunno, si lasciò cadere come fosse l'ultima foglia, leggera nel vuoto. Si infranse sugli scogli. Il suo corpo giacque per giorni nascosto tra le rocce. Le onde carezzarono il suo viso, una, dieci, cento volte. Le onde si abbatterono sul suo corpo e quasi per magia le diedero voce.”
Gli occhi della bambina divennero lucidi, si velarono di una palpebra d'acqua. La vecchia tacque, carezzò le guance della piccola e sottovoce sussurrò:
“Si racconta che il mare abbia custodito la voce di Giada nelle sue profondità, si racconta che l'eco della sua voce e della sua musica continui a sentirsi ancora nelle piccole grotte e nelle conchiglie bianche, levigate dal mare.”
Sul viso della bambina si dipinse un sorriso e la palpebra d'acqua andò via.

Commenti