Lo Storpio


In un posto qualunque, in un tempo qualunque ero chi qualcuno di voi definirebbe uno storpio.
Non camminavo, mi trascinavo! I piedi scivolavano sulla strada mossi dal continuo e disarticolato movimento delle mie anche, delle mie spalle. Mi muovevo balbettando! I miei nervi erano tesi come corde di violino, i miei occhi erano persi negli spazi lontani, quelli inafferrabili dalla mia infermità. Ero uno storpio, deriso da alcuni, compatito da molti. Ispiravo pietà, compassione, forse a volte una strana tenerezza. Ero uno storpio, nato da un parto umano, seppur di umano sembravo aver ben poco. Ero uno storpio, battezzato nel nome di Cristo, seppur Cristo sembrava mi avesse voltato le spalle. Ero uno storpio, il perché o il per come non so spiegarvelo, la vita mi aveva escluso da quelli che sono i piaceri comuni, ero stato relegato a ben altra vita, quella della fantasia. L’infermità si mescola alla follia, ciò che non si ha lo si immagina, ciò che non si afferra lo si costruisce, come un buon attento scultore sa fare! Ero uno storpio, il mio aspetto da bambino avrebbe ispirato tenerezza forse ancora per qualche anno, poi sarebbe giunta l’adolescenza, la vecchiaia e quel po’ di tenerezza sarebbe andata via. La mia voce era confusa, i miei discorsi disarticolati. Le mie labbra restavano quasi sempre incollate, erano come serrate. Non riuscivo a dosare le parole, le forze, non riuscivo a esser paziente. Vedevo le parole fermarsi, soffermarsi lì sulle labbra, le mie labbra e poi...morire! Contemplavo le parole prima che venissero fuori, prima che acquistassero suono e senso. Contemplavo le parole che, vestite come principesse, indugiavano a prender forma. Ascoltavo il loro prematuro suono nella mia mente. Il suono restava immutato all’eco delle mie orecchie, poi di colpo cambiava, diveniva distorto, disarticolato, le parole e il loro suono avevano due significati e due vesti diverse, dentro e fuori della mia mente!
Ero uno storpio e tutto ciò che traspariva o trasudava dalla mia pelle, dalle mie labbra finiva col divenire storpio. Tutto si adeguava alla realtà a cui appartenevo. Non uscivo spesso, mi confondevo con le mura di casa, trasudavo l’odore di chiuso, me ne restavo in camera a guardare fuori. Confondevo il cielo con il mio soffitto bianco come l’avorio, sempre uguale a se stesso. Fissavo ogni cosa mi circondasse, acquistavo la manualità delle cose nella mia mente, possedevo le cose con il solo pensiero. C'erano giorni in cui giocavo a far l'equilibrista, io trapezista in bilico su di un corpo, in un corpo senza fili, senza forze per camminare da solo. C'erano giorni in cui volavo tra le nuvole, altri in cui mi immergevo e sprofondavo negli abissi più profondi. Bastava lo volessi, avessi bisogno di fuggire, di sentire il mio corpo librarsi senza forma nello spazio e nel tempo, privo di un peso. Il peso della mia infermità si sommava alla gravità ancorandomi a terra, privo di forze e denso di spasmi. L’infermità mi relegava lontano dal mondo che la fantasia tesseva di fronte ai miei occhi.
L’invidia forse, spesso nasce dalla rabbia, quel sentimento che avevo letto da qualche parte, resta adeso alle ossa ed è l’ultimo sentimento umano a scomparire, quando l’uomo nelle circostanze più assurde e dolorose dimentica di esser tale. Invidiavo e provavo rabbia per le grida dei bambini che vedevo giocare nel cortile accanto al giardino di mia zia. Volevo, avrei voluto la mia mente avesse potuto trasmigrare anche solo per qualche istante nei loro corpi e governare un corpo sano. Spesso mi chiedevo chi mi avesse rubato il senso dell’equilibrio, l’equilibrio del corpo, della parola. Mi chiedevo cosa fosse successo nel grembo di mia madre per sottrarmi a una nascita naturale e giusta, rispettosa della vita! Quando morì mia madre fu mia sorella a prendersi cura di me. Mio padre credo fuggì non appena mi vide da lontano. Certo non ero così come sono ora nei suoi sogni di padre. Certo non avrei dato onore alla sua discendenza, se mai fossi stato in grado o avessi provato ad averla una discendenza. Avrei messo al mondo una famiglia di storpi per chissà quale colpa. Chissà per quale colpa o strano veleno disciolto nel mio sangue ero nato storpio. Magari la genetica avesse potuto purificarlo il mio sangue!

Abitavo al quinto piano di un vecchio palazzo. La casa non era molto grande, ma era luminosa e accogliente, pulita e ordinata quanto basta. Mia sorella si occupava di ogni cosa. Aveva un sorriso disarmante e gli occhi di un verde smeraldo. Celava i suoi pensieri nei silenzi dopo cena, quando distratta e stanca cercava di riordinare ogni cosa. La mia stanza era abbastanza piccola, trascorrevo lì la maggior parte del mio tempo libero... libero poi da cosa? Io che ero o sembravo imprigionato in un corpo privo di vita. La mia mente cresceva e il mio corpo restava quello di uno strano bambino. I bambini piccoli sono tutti uguali, gesti poco comprensibili, sorrisi, sguardi profondi e innocenti, passi titubanti, parole sconnesse...poi il tempo rende i gesti precisi, gli sguardi attenti, i passi sicuri e veloci, le parole dense. Io ero rimasto un bambino. I miei gesti erano confusi, gli sguardi erano rimasti profondi, ma privi di innocenza, densi di rabbia e d’invidia. I miei passi erano tremolanti come se ancora il tempo non mi avesse concesso la giusta conoscenza dell’equilibrio. Le parole nella mia mente erano fiumi in piena che poi finivano per cadere nel vuoto e in un silenzio sconnesso una volta sul baratro delle mie labbra. La mia infermità continuava a crescere in me e con me. Ero costretto a trascorrere sempre più ore a casa soffermandomi a guardare il tempo e lo spazio attraverso un vetro. E' strano come la tecnologia possa alienare o far comunicare mondi lontani. Odiavo tutti i mondi virtuali che rubavano l’infanzia e amavo i mondi reali a cui approdavo attraverso quelle radici virtuali che una rete tesseva nello spazio. Avevo scoperto di poter accedere al mondo attraverso quella rete. Raccontavo, ascoltavo e lasciavo la mia infermità per qualche ora confinata in una realtà che non aveva accesso alla rete. Restavo così per ore connesso a scoprire orizzonti lontani attraverso un filo. Continuo a esser un peso, sono un peso morto, non ho forze, la mia infermità continua di anno in anno a relegarmi su un letto. La mia infermità si ammala, peggiora di anno in anno, è come una metastasi, pian piano ogni parte del mio corpo muore. Mi restano solo i 5 sensi. Gusto ancora con piacere un buon gelato, sento sulla mia pelle le lenzuola soffici e profumate di lavanda, sento le risa e la voce di mia sorella, non sento più l’odore del mio corpo, credo di averlo perso, sono asettico come questa stanza, come queste pareti. Il mio sguardo, i miei occhi sono in cerca di un cielo, di nuvole da scolpire. Ho noia di questo soffitto, di queste pareti, di questi odori, li stessi di sempre. Ho noia di questo silenzio imperscrutabile, sterile, uguale a se stesso giorno dopo giorno. Sono stanco, stanco del mio corpo che giace infermo in un letto bianco. La mia mente è lucida, conserva tutto come un’urna, come uno scrigno. Da qualche mese ho perso quasi del tutto l’uso della parola, mi connetto al mondo tramite questo computer. I miei pensieri si diramano in questa rete, cerco di arraffare stimoli, svegliare coscienze per sentirmi meno inutile, egoisticamente forse meno solo. Ho deciso di morire. Iniezione fatale. Eutanasia. Forse e chissà perché questa morte dovrebbe essere meno cattiva. Dovrei addormentarmi fra qualche ora e lasciare dietro di me ogni cosa. Forse in un'altra vita mi sarà concesso l’uso dell’equilibrio, forse in una vita più lontana i miei muscoli si risveglieranno da questo letargo. Ho paura, paura di morire di non poter più provare speranza ma oramai anche la mia speranza è stanca di aspettare. La vita di quaggiù non mi appartiene!
Eutanasia...morte. Cosa accadrà?

Forse la mia anima avrà un nuovo corpo, forse il creato che mi aspetta o mi attende, se mai ne esistesse uno al di là di queste mura, mi punirà e sarò in balia del vento senza un corpo. Mi importerà poco se un giorno il pensiero delle persone che amo mi renderà vivo e libero. Mi importerà poco se quel giorno correrò nella loro immaginazione in assenza di gravità, in assenza di dolore e finalmente finirò di essere uno storpio.

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